Da Leonardo Cottone [engimecuador.org] Cosa vuol dire essere stranieri nel mezzo di un Paese in protesta?
Vivo in Ecuador da 7 mesi come volontaria in servizio civile. Penso di conoscere il paese, gli ecuadoriani, la loro cultura. So come ci si saluta, uso termini dialettali, so contrattare, ho viaggiato su ogni mezzo di trasporto e so dove prendere i bus per raggiungere ogni zona del paese. Conosco il sistema scolastico e la cultura culinaria, ho imparato a salire e scendere dai bus al volo perché gli autisti hanno fretta, ma ho imparato anche ad aspettare i tempi ecuadoriani per qualsiasi altro tipo di servizio. Conosco l’Ecuador, lo vivo sorprendentemente come una quotidianità che mi è sempre appartenuta. Fino a che non inizia un profondo periodo di protesta e tutto cambia.
Non ho la pretesa di delineare un quadro della situazione politica, economica e sociale del paese, ho solo la voglia e il bisogno di condividere alcune riflessioni circa il modo in cui sto vivendo questa situazione. Giovedì 3 ottobre 2019 viene proclamato uno Sciopero Nazionale, in risposta ad una serie di misure in campo economico e sociale attuate dal Presidente Lenin Moreno, in attuazione di un prestito condizionato del Fondo Monetario Internazionale. Inizia il paro, prolungato poi fino al giorno successivo. Per le informazioni che avevo e per il mio background culturale, i primi giorni di protesta sono stati un esempio importante: vedere un popolo scendere in piazza per dire ‘NO’ a delle politiche considerate ingiuste e a un presidente che non ha tenuto fede alle promesse elettorali, e vederlo fare in quel modo massiccio, è stata un’emozione. Qualcosa che sapevo riconoscere, una grande manifestazione come tante ce ne sono anche in Italia, ma molto più sentita e partecipata. Uno sciopero in cui davvero di autobus e taxi in giro non se ne vedeva neanche uno. Poi sono arrivate le voci degli scontri: i manifestanti provocano, la polizia risponde. Ci sono feriti, forse dei morti e notizie di violazioni dei diritti umani.
Né il governo, né i manifestanti danno segno di volersi fermare. Le prime avvisaglie di una situazione che tanto familiare non mi era. Gli scontri ci sono anche durante le proteste in Italia, è vero, ma notizie di feriti o morti sono notizie considerate gravi, che fanno scalpore, che costringono qualcuno a prendersi la responsabilità dei fatti, nel migliore dei casi. Qui le proteste proseguono e anche gli scontri. Si fa strada in me l’inquietudine di non avere strumenti per prevedere gli sviluppi di questa situazione. L’empatia, verso un popolo che non molla; l’orrore, per l’entità degli scontri; la paura, per il futuro delle persone che conosco qui, che mi sono amiche, che per vivere contano i centesimi. Il sabato inizia a girare la notizia “Stanno arrivando gli indigeni dalle montagne”. Fa quasi ridere, tutti continuano a ripetere questa frase per giorni, fino a lunedì sera in cui “20.000 indigeni entrano a Quito”.
Cosa vuol dire il coinvolgimento delle comunità indigene nella protesta? Una protesta contro misure economiche che, ancora una volta, non li tutela in nessun modo. Una protesta contro un presidente che non li rappresenta.
Una protesta contro lo Stato come istituzione, che da sempre espropria le loro terre, sfrutta le loro risorse, inquina le loro acque e modifica il loro modo di vivere. Questo, per me, è nuovo, non prevedibile, non considerato prima. È un elemento in più che mi confonde e mi allontana dalla possibilità di capire e prevedere gli sviluppi. È un fattore in più che mi fa pensare che, in questa protesta, io sono un’estranea. Provando a capire, leggendo e confrontandomi con altri, ho appurato che in Ecuador funziona così: quando una politica o un presidente non sono ben accetti, il popolo protesta finché il presidente non si dimette. Una lettura semplicistica ma efficace.
Che aggiunge inquietudine e mi fa pensare che forse non è prevista la ricerca di un dialogo, che nessuna delle due parti sta cercando un accordo. Quindi, se il presidente non si dimette, che succede? Un altro elemento di rottura con ciò che conosco e di incapacità di lettura del contesto. Infine, nello sforzo continuo di trovare nei miei studi gli strumenti per leggere la situazione, mi sorge una domanda senza risposta, che mi sento quasi inadeguata a pormi e che scuote tutto ciò che penso di sapere: davvero uno stato deve passare attraverso politiche neoliberiste per aspirare a una crescita economica? Davvero un paese ricco di risorse naturali straordinarie e con una forte e importante tradizione contadina non può trovare una via alternativa? In questi giorni di protesta, di chiusura in casa senza possibilità di andare al lavoro, di notizie e video viste dai social network, di difficoltà a capire come essere informati, di condivisione di questi pensieri con i miei compagni, è difficile capire come sentirsi. C’è la forte emozione di stare vivendo un momento storico di questo paese e il senso di impotenza nel non capire come appoggiarlo. La sensazione di essere estranei a queste tematiche, di essere davvero solo ospiti, mista all’empatia nei confronti di chi lotta per il proprio futuro e continua a subire forti repressioni. Quindi cosa vuol dire essere stranieri nel mezzo di un paese in protesta? Vuol dire fare quello sforzo in più necessario a comprendere il popolo che ti ospita. Vuol dire vivere la storia dal vivo, storia che altrimenti avresti a malapena incrociato su un quotidiano. Vuol dire valutare come la stampa italiana tratta la politica estera e farti portavoce dei fatti che accadono qui. Vuol dire, ancora una volta, imparare a mettere da parte il tuo sistema di valori, il tuo bagaglio culturale e usare tuti gli strumenti di interculturalità sviluppati nei mesi di Servizio Civile per capire qualcosa che, usando unicamente il tuo pensiero per come lo hai allenato da anni, non potresti mai capire.
foto: Livia Cozzolino