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Liceo Artistico, le poetesse del '500

Da insegnante di Materie letterarie, ho sempre nutrito un particolare

interesse per un aspetto considerato generalmente “minore”, o almeno così appare se si guarda allo spazio che viene riservato dai manuali di storia della letteratura all’argomento. Mi riferisco all’importante fioritura poetica femminile del Cinquecento, quando, all’interno della più ampia produzione petrarchista sviluppatasi sulle indicazioni di Pietro Bembo, la donna cessa di essere esclusivamente oggetto di poesia maschile (basti pensare a tutta la tradizione delle origini, dalla Scuola poetica siciliana allo Stilnovo e poi a Dante, Petrarca, Boccaccio…) e diventa autrice di poesie, con pubblicazioni di rime e canzonieri che meriterebbero un’attenzione e un approfondimento particolari. È pur vero che anche in età medievale esistevano produzioni letterarie femminili, come quella di Caterina Benincasa, conosciuta come Santa Caterina da Siena, considerata la prima scrittrice della letteratura italiana, ma si tratta di fatti eccezionali, poiché la cultura dominante emarginava le donne e la loro istruzione era spesso limitata all’ambiente religioso, con una serie di limitazioni, per le quali spesso la scrittura religiosa femminile era sottoposta al controllo maschile di un confessore.
La produzione poetica femminile dell’età rinascimentale è un fenomeno del tutto nuovo, sia per qualità che per quantità. Sono tante le poetesse che si distinguono per passione letteraria, intensità d’espressione, sensibilità artistica, relazioni culturali, in un intreccio spesso profondo tra biografia e scrittura. E questo intreccio fa sì che i Canzonieri delle poetesse del Cinquecento costituiscano una sorta di diario sentimentale, con un’intensa presenza autobiografica: questo le allontana, spesso, dal modello petrarchesco, dove la vicenda personale sfuma verso l’idealizzazione. Si possono leggere testi in cui emergono diverse tipologie femminili: dalla moglie fedele alla donna libera e spregiudicata, dalla tenera fanciulla alla cortigiana onesta, da colei che vive nel chiuso del suo piccolo ambiente a chi intrattiene rapporti internazionali.

VITTORIA COLONNA
La prima raccolta di poesie è l’edizione del 1538 delle Rime di Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, donna di grande cultura e raffinatezza, nota soprattutto per la sua intensa amicizia con Michelangelo Buonarroti, che per lei creò diverse opere, tra cui la famosa Crocifissione, in carboncino su carta, oggi al British Museum di Londra. Di questa amicizia restano diverse poesie dedicatele dal Buonarroti, parte del carteggio e testimonianze di incontri artistico-culturali, per le quali rimando all’interessante tesi di dottorato di Valentina Salvato Il carteggio di Michelangelo – Una biografia attraverso le lettere - Capitolo III, Michelangelo e Vittoria Colonna(Università di Palermo).
Lo stesso Michelangelo, dopo la morte di Vittoria, così si espresse: Morte mi tolse uno grande amico! Il maschile utilizzato dall’artista è indicativo di una profondità di affetto e stima che supera le differenze di genere per giungere ad una vera fusione di anime, in cui condividere arte, letteratura, religione, sensibilità.
Vittoria Colonna, dedicò la prima parte del suo Canzoniere alla storia d’amore con il marito Ferdinando Francesco d’Avalos, della quale evoca gli intensi sentimenti e il dolore per la sua morte;la seconda parte all’aspirazione a raggiungere la pace nella fede, con la conseguente scelta che la spinse per molto tempo a vivere la sua vedovanza in convento.
Così, nel sonetto seguente, Vittoria Colonna suggerisce i due stati d’animo dominanti della sua esistenza: quello sereno dei momenti vissuti accanto al marito (prima quartina) e quello tormentato successivo alla sua scomparsa.

Oh che tranquillo mar, oh che chiare onde
Solcava già la mia spalmata barca,
Di ricca e nobil merce adorna e carca,
Con l’aer puro e con l’aure seconde!

Il ciel ch’ora i bei vaghi lumi asconde,
Porgea serena luce e d’ombra scarca;
Ahi quanto ha da temer chi lieto varca!
Chè non sempre al principio il fin risponde.

Ecco l’empia e volubile fortuna,
Scoperse poi l’irata iniqua fronte,
Dal cui furor sì gran procella insorge.

Vènti, pioggia, saette insieme aduna,
E fiere intorno a divorarmi pronte;
Ma l’alma ancor la fida stella scòrge.

L’amore per il marito è totale e assoluto e dura oltre la sua morte, sentendo la poetessa ancora viva la “piaga” del suo cuore, né avverte la possibilità che nasca un “nuovo caldo” dal momento che il sentimento provato per il marito ha spento ogni altra fiamma.

Di così nobil fiamma Amor mi cinse,
Ch’essendo spenta, in me vive l’ardore;
Nè temo nuovo caldo, che ’l vigore
Del primo foco mio tutt’ altri estinse.

Ricco legame a bel giogo m’avvinse,
Tal che disdegna umil catena il core;
Nè più speranza vuol, nè più timore;
Ch’un sol incendio l’arse, un nodo strinse.

Un sol dardo pungente il petto offese
Sì, ch’ei riserba la piaga immortale
Per schermo contra ogni amoroso impaccio.

Amor le faci spense, ove l’accese,
L’arco spezzò all’avventar d’un strale,
Sciolse ogni nodo all’annodar d’un laccio.


GASPARA STAMPA

Nata a Padova, dopo la morte del padre si trasferì con la famiglia a Venezia, dove si fece subito notare per la sua cultura e per essere una suonatrice di liuto oltre che cantatrice. Condusse la sua vita all’insegna della libertà sentimentale ed ebbe diverse relazioni amorose, delle quali la più importante e nota è sicuramente quella che la legò al conte Collaltino di Collalto. Si trattò di una storia tormentata, dal momento che Gaspara sentiva di non essere ricambiata con la stessa intensità. La relazione si interruppe dopo tre anni, probabilmente per volontà dell’uomo.
A lui Gaspara Stampa dedica esplicitamente il suo Canzoniere(pubblicato postumo a cura della sorella Cassandra) ed ecco cose dice nella presentazione della sua raccolta:

ALLO ILLUSTRE MIO SIGNORE
Poi che le mie pene amorose, che per amor di V. S. porto scritte in diverse lettere e rime, non han possuto, una per una, non pur far pietosa V. S. verso di me, ma farla né anco cortese di scrivermi una parola, io mi son rissoluta di radunarle tutte in questo libro, per vedere se tutte insieme lo potranno fare. Qui dunque V. S. vedrà non il pelago delle passioni, delle lagrime e de’ tormenti miei, perché è mar senza fondo; ma un picciolo ruscello solo di esse; né pensi V. S. ch’io abbia ciò fatto per farla conoscente della sua crudeltà, perché crudeltà non si può dire, dove non è obligo, né per contristarmela; ma per farla più tosto conoscente della sua grandezza ed allegrarla […]

La poetessa dedica le sue poesie all’uomo amato e che l’ha delusa non per contristarlo o per rimproverargli la sua crudeltà, perché nell’amore non vi può essere obbligo, ma ancora una volta per esaltarne la sua grandezza.
Nel sonetto proemiale, in particolare nelle quartine, molte espressioni sono di chiara ispirazione petrarchesca: esso riprende infatti il primo sonetto del Canzoniere di Francesco Petrarca Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. Presto, però, l’imitazione lascia il posto all’originalità e già il “Voi” suggerisce una importante differenza rispetto al poeta, dal momento che si riferisce alle “ben nate genti”, tra le quali chiede di trovarenon solo il perdono, ma anche la gloria.

Voi, ch'ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l'altre prime,

ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de' miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.

E spero ancor che debba dir qualcuna:
- Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!

Deh, perché tant'amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?

Nel corpo del Canzoniere la vicenda personale tende a prevalere e Gaspara Stampa insiste sui propri sentimenti, raggiungendo importanti risultati poetici, attraverso un’analisi interiore che mette in evidenza la maturità di lettura dei propri stati d’animo: molto interessante è il seguente sonetto, in cui la poetessa evidenzia l’alternarsi di illusione e disinganno, di speranza e timore, attraverso la delicatissima immagine di un “vago e purpureo giacinto”
Quasi vago e purpureo giacinto,
che ‘n verde prato, in piaggia aprica e lieta,
crescendo ai raggi del più bel pianeta,
che lo mantien degli onor suoi dipinto,
subito torna languidetto e vinto,
sì che mai non si vide tanta pièta,
se di veder gli usati rai gli vieta
nube, che ‘l sol abbia coperto e cinto;
tal la mia speme, ch’ognor s’erge e cresce,
dinanzi a‘ rai de la beltà infinita,
onde ogni sua virtute e vigor esce.
Ma la ritorna poi fiacca e smarrita
oscura tema, che con lei si mesce,
che la sua luce tosto fia sparita.
Sorprende la sincerità con cui Gaspara esprime i suoi sentimenti, con abbandono e struggimento, senza tentare di velare la sua storia d’amore, autentica e vissuta con intensità: così, lo schemapetrarchesco si spezza e, allontanandosi dal percorso spirituale idealizzato, tipico del genere, esplode nell’immediatezza di una reale vicenda amorosa.

VERONICA GAMBARA

Nata nel Castello di Pratalboino (Pralboino), in Lombardia, da una nobile e colta famiglia, ricevette una buona educazione umanistica e già adolescente cominciò a comporre versi secondo lo schema petrarchesco canonizzato da Pietro Bembo, con il quale intrattenne uno scambio epistolare e poetico. Per scelta familiare, andò in sposa a Giberto, signore di Correggio: il matrimonio fu felice e, quando nel 1518 il marito morì, si mostrò capace di reggere lo stato di Correggio, con saggezza e determinazione, occupandosi di tutti gli aspetti della vita politica. Questo la condusse ad intrattenere importanti relazioni con illustri personalità dell’epoca, sia in ambito culturale, che in ambito politico. Le vicende della sua biografia, la condussero anche a modificare nel tempo i temi delle sue rime, come lei stessa afferma nel seguente sonetto:
Mentre da vaghi e giovenil pensieri
Fui nodrita, or temendo, ora sperando,
Piangendo or trista, ed or lieta cantando,
Da desir combattuta or falsi, or veri,
Con accenti sfogai pietosi, e seri
I concetti del cor, che spesso amando
Il suo male assai più che 'l ben cercando,
Consumava dogliosa i giorni interi.

Or che d'altri pensieri, e d'altre voglie
Pasco la mente, a le già care rime
Ho posto, ed a lo stil, silenzio eterno.

E se allor vaneggiando, a quelle prime
Sciocchezze intesi, ora il pentirmi toglie
Palesando la colpa, il duolo interno.


La poetessa dichiara dunque di voler abbandonare i “vaghi e giovenil pensieri”, espressi con alterni sentimenti di gioia e di tristezza, di speranze e timore, definiti adesso “sciocchezze” di cui si pente, per dedicarsi ad “altri pensieri” di cui nutre la mente.

Per comprendere il piglio e la determinazione di Veronica Gambara, è sufficiente leggere il sonetto dedicato all’imperatore Carlo V e al re di Francia Francesco I, per invitarli a mettere da parte il loro “odio antico” che ha portato distruzione non solo all’Italia, ma all’Europa, e ad unirsi nella lotta contro i Turchi.


A Carlo V ed a Francesco I Re di Francia, esortandoli alla guerra contro a' Turchi

Vinca gli sdegni e l' odio vostro antico,
Carlo e Francesco, il nome sacro e santo
Di Cristo; e di sua Fe vi caglia tanto
Quanto a Voi più d' ogn' altro è stato amico.
L' arme vostre a domar l' empio nemico
Di lui sian pronte, e non tenete in pianto
Non pur l' Italia, ma l'Europa, e quanto
Bagna il mar, cinge valle o colle aprico.
Il gran Pastor, a cui le chiavi date
Furon dal Cielo, a Voi si volge, e prega
Che de le greggi sue pietà vi prenda.
Possa più de lo sdegno in voi pietate,
Coppia reale, e un sol desio v' accenda
Di vendicar chi Cristo sprezza e nega.

ISABELLA MORRA
Alla guerra combattuta in Italia da Francesi e Spagnoli è legata la vicenda di Isabella di Morra, nata a Favale(Valsinni) nei pressi del fiume Sinni. Siamo quindi in Lucania e il padre di Isabella, Giovanni Michele di Morra, nello scontro tra francesi e spagnoli per il dominio sul Regno di Napoli, si alleò con Francesco I. Quando il re francese venne sconfitto da Carlo V, egli fu costretto ad emigrare a Parigi, insieme al figlio Scipione, nel 1528. Isabella era ancora una bambina (circa 8 anni) e per lei la partenza del padre e dell’unico fratello con cui avvertiva un’affinità emotiva e culturale (gli altri erano duri e spietati) costituì una grave perdita affettiva. Rimase isolata nel suo castello, dedita agli studi, seguita da un precettore, nutrendosi di cultura e poesia. Col passare degli anni i rapporti con i fratelli si incrinarono sempre di più e la sua divenne una vera e propria reclusione che trovava conforto solo nella composizione poetica. Fu assassinata dai fratelli, quando aveva circa venticinque anni, a causa di una corrispondenza poetica con il nobile don Diego Sandoval de Castro. Dimenticata per tantissimo tempo, la figura di Isabella Morra è stata riportata alla luce da Benedetto Croce, che si interessò della vicenda e pubblicò il saggio “Storia di Isabella Morra e Diego Sandoval De Castro”.
Pur trattandosi di un’esigua raccolta di poesie, l’opera di Isabella si distingue per l’intensità espressiva del suo struggimento. La sua breve vita trascorre nell’attesa del ritorno del padre:
D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch’alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
la calda speme in pianto fa mutare.

Ch’io non veggo nel mar remo né vela
(così deserto è lo infelice lito)
che l’onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna allor spargo querela
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.
Il suo dolore si esprime con toni disperati, un grido che si estende a tutta la natura che circonda il suo castello/prigione, una natura vista negli aspetti più cupi, rovinosi , selvatici e infernali.
Ecco ch’una altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.

Ogni monte udirammi, ogni caverna.
ovunque io arresti, ovunque io mova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi.
cresce ogn’or il mio mal, ogn’or l’eterna.

Deh, mentre ch’io mi lagno e giorno e notte,
o fere, o sassi, o orride ruine,
o selve incolte, o solitarie grotte,

ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d’altro miserando fine.

Questo articolo è il risultato di una ricerca svolta nell’ambito delle lezioni di Letteratura italiana nella classe III B (oggi IV B) del Liceo Artistico di Cefalù: è soltanto l’avvio di un’attività che merita di essere approfondita nel corso degli anni. Gli stessi alunni mi hanno sollecitata ad occuparmi di altre figure femminili del ‘500, come Cassandra Fedele, raffinata umanista veneziana, che scrisse opere sia in latino che in volgare e che probabilmente fu la prima donna a pronunciare un’orazione accademica, un discorso in lode delle scienze e delle arti davanti al senato dell’Università di Padova;Chiara Matraini, poetessa lucchese, che visse un’esistenza oscillante tra scandali e tentativi di ricostruire una positiva immagine di sé, tra trasgressione e slanci religiosi; Veronica Franco, famosa grazie all’amicizia di uomini di spicco del periodo, “honorata cortigiana” che visse negli agi e subì anche un processo da parte dell’inquisizione e che propose, senza esito, al Consiglio cittadino di costruire una casa per donne indigenti.
È evidente che questo studio ha occupato un buon numero di ore scolastiche: per questo chiediamo scusa al caro Ludovico Ariosto, per avere sottratto del tempo allo studio della sua opera. Consapevoli, però, della sensibilità dell’illustre poeta nei confronti del fascino femminile e, in particolare, della sua Alessandra Benucci, e convinti della sua conoscenza delle capacità di seduzione muliebre, come dimostrano le “sue donne” dell’Orlando furioso, siamo sicuri che saprà perdonarci.

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