Potrebbe sembrare una scelta ardita
e, per certi versi, fuorviante quella di citare Roberto Benigni in apertura di questo libro, facendo riferimento al commento al quarto comandamento, quando l’attore sposta l’attenzione sul tema del tempo e sui giorni che giacciono, spesso dimenticati, dentro di noi.
In realtà, la lettura e la visione di questo libro, in cui le immagini rivestono un ruolo fondamentale, inducono a ritrovare dentro di sé quei giorni che si credeva di non avere o di non avere più; permettono di riscoprire luoghi, persone, situazioni apparentemente dimenticati e ciò non solo per i cittadini di Lascari vicini all’ambientazione del libro, ma per tutti quegli uomini e donne della nostra Sicilia che hanno fatto esperienza diretta o indiretta di un mondo arcaico agli occhi della contemporaneità, ma ricco di valori e di storia, di verità e autenticità. Così quei luoghi antichi e quei lavoratori arcaici diventano simbolo di un universo antropologico che vive negli anfratti della nostra memoria.
Il libro sugli antichi mestieri regala al lettore l’opportunità di ripercorrere la propria esperienza esistenziale, perché è accaduto che alcune generazioni hanno preso le distanze dal mondo dei padri o dei nonni, un mondo visto come irrimediabilmente vecchio, da dimenticare per immergersi nella modernità, nella tecnologia, nelle telecomunicazioni, nel mondo globalizzato in cui tutto si conosce in tempo reale e si consuma nell’attimo, come nell’attimo si consuma la propria esistenza, in un tempo vissuto come estremamente breve. Poi, però, accade che, lungo il cammino di crescita personale, un’occasione, un evento, un libro fa riscoprire il passato, il passato degli altri che è atavicamente il proprio, con i suoi odori, i suoi sapori, i suoi colori e, soprattutto, con il suo tempo, un tempo diverso, ritmato dal lento trascorrere delle stagioni, un tempo pieno in cui il corso della vita è all’unisono con il ciclo della natura e il tempo del lavoro, pur nella sua durezza, non stride con quello dell’esistere.
E così può sembrare ardito e, per certi versi, fuorviante citare Max Weber (il quale, a sua volta, cita Tolstoj), per affermare che prima si moriva “sazi di vita”, mentre oggi, probabilmente, si muore “stanchi di vita” ma non sazi di vita, perché il progresso vertiginoso spinge a desiderare sempre altro, a non essere mai veramente appagati e “sazi” del nostro essere al mondo.
Ed ecco, allora, il bisogno di fermarsi e rivolgere l’attenzione a quell’universo spesso rinnegato o, addirittura, rimosso ma che palpita nei labirinti interiori di chi lo ha conosciuto, anche indirettamente, dai racconti dei più anziani. Ecco gli ambienti di lavoro del passato, i volti di uomini e donne che hanno vissuto una vita diversa dalla nostra, gli sguardi di chi non osava andare troppo in là nel futuro, ma che inconsapevolmente lo fondava.
Riemergono, dal nostro bagaglio antropologico, parole dimenticate che indicano antichi lavoratori (mulinaru, vuttaru, stazzunaru, carcararu, pirriaturi, putiaru…), i relativi ambienti di lavoro, le azioni principali di un mestiere, come tramutari (quanti giovani oggi conoscono questo verbo che indica un’attività del vinaio?) o gli strumenti utilizzati (sirraculu, lancedda, lannuni); parole che definiscono la caratteristica dei luoghi, come muntata, pinnina, chianu, vanedda; gli antichi nomi (Zulù, Liscianniru, Niniddu, Minichieddu, Turi, Nittu, Ciali, Saridda, Annetta, Mimidda, Pippina) e i soprannomi, le cosiddette nciurie: Badduzza, Minnuzza, Pipituni, Vercia, Baruni, Quasittara.
Riemergono antiche atmosfere e mi piace ricordare quella che ci riporta all’infanzia e allo stupore provato di fronte ai mortaretti e ai fuochi d’artificio. Mastru Liscianniru e mastru Niniddu preparavano i maschiati in occasione delle più importanti feste religiose e ospitavano per circa quindici giorni nel loro laboratorio i colleghi jocufucara, provenienti da Misilmeri, per consentire loro di preparare i fuochi d’artificio. Mortaretti e fuochi d’artificio erano allora eventi eccezionali che sottolineavano momenti ritenuti fondamentali per la collettività: c’era, soprattutto tra i bambini, grande attesa nei confronti di questi misteriosi e spettacolari giochi di polveri e luci. Oggi mortaretti e fuochi d’artificio concludono feste private di ogni genere, dal Capodanno ai matrimoni e, come sempre accade, ciò che diventa frequente perde tutto il fascino dell’attesa e della novità.
È un libro, questo, che nasce da una grande passione, quella di Salvatore Piazza, instancabile ricercatore di tracce del passato, di memorie, di racconti, di immagini, di un patrimonio, insomma, che potrebbe ancora palpitare dentro di noi e che potrebbe essere tramandato ai nostri figli, se solo riuscissimo a riguadagnare la giusta dimensione del tempo e il giusto sguardo sui luoghi autentici, spesso oggi smarriti in una selva di “non luoghi”.
La presentazione ha avuto luogo il 22 settembre a Lascari, nella Chiesa di San Michele Arcangelo, alla presenza e con i contributi del Sindaco, dott. Giuseppe Abbate, del Parroco, mons. Rosario Dispenza, dell’Assessore al turismo, ing. Caterina Provenza e, chiaramente, del poliedrico e creativo autore. L’evento è stato impreziosito da intervalli musicali dell’Ensemble Karapè di Motta d’Affermo, che si è esibita insieme ai musicisti cefaludesi Andrea Cangelosi e Concetta Famularo e al mezzosoprano Gemma Sansone, con la direzione del Maestro Pasquale Presti e con testi di Salvatore Piazza e musica di Presti – Piazza.